Roma, 222 a.C.: i due consoli Marco Claudio Marcello e Gneo Cornelio Scipione Calvo arringano la folla e i senatori riuniti al tempio di Bellona, riuscendo con la loro strategia oratoria a convincerli della necessità di una nuova campagna militare contro i Galli Insubri. Lo scontro con il nemico di vecchia data della repubblica romana era infatti rimasto in sospeso, l’anno precedente, nei pressi di Brixia (l’odierna Brescia), e l’affermazione del dominio di Roma sulla Gallia cisalpina è un ottimo pretesto per mettersi in luce, per chi abbia aspirazioni nella carriera politica, oltre che in quella militare.
Nel frattempo, il giovane Marco Levinio prova a districare la matassa della sua vita tra la gestione dei terreni del padre, i propri doveri filiali e quelli matrimoniali: il triste ricordo della defunta moglie Livia è oscurato dal suo prossimo matrimonio combinato, un mero escamotage del genitore per ottenere un’amante senza dare scandalo, e la donna prescelta, Sestia Sabina, contribuisce a rendere difficile l’esistenza di Levinio con la sua personalità velenosa. L’unica via di salvezza sembra rappresentata dall’arruolamento nell’esercito di Roma, porta di accesso a una carriera che il protagonista intraprenderà assieme a Pulcro, amico di una vita, animato da grandi speranze e sogni di gloria nella città eterna.

Giovanni Melappioni riesce ancora una volta a sorprenderci con il suo ultimo romanzo: Milites – Cammino di gloria, un viaggio avvincente all’interno dell’antica Roma repubblicana e soprattutto del suo esercito, che seguendo la storia travagliata di un singolo legionario ci porta in contatto con personaggi storici realmente esistiti, culture antiche ancora poco conosciute dal grande pubblico, e con battaglie reali ma, soprattutto, realistiche. Lo scrittore marchigiano, del quale avevamo già parlato in occasione dell’uscita del suo romanzo Il cavaliere del leone, anche in questo caso sfoggia una conoscenza storica dettagliata e puntuale del mondo antico, così come aveva dimostrato per quello medievale. Gli usi e costumi delle popolazioni romane e di quelle “barbare”, la rigida disciplina mantenuta nell’esercito, i gradi e i nomi delle posizioni politiche della grande macchina statale di Roma, sono illustrati con magistrale precisione man mano che la trama si dipana lungo la strada della guerra.
Il nostro Levinio sarà infatti catapultato in un mondo ben diverso dalle sue aspettative, nel quale i sogni di gloria devono spesso arrendersi davanti alla cruda realtà dello scontro armato. Non solo tattiche, combattimenti e atti di eroismo, ma anche e soprattutto i nudi sentimenti degli uomini travolti da un amaro destino, tutta la barbarie del conflitto ci viene mostrata con grande intensità dalla penna di Melappioni. Un realismo che, naturalmente, non può non coinvolgere le spade.

Con una spada si apre infatti il romanzo: una spada antica e straniera, pretesto narrativo per intraprendere il lungo flashback che è l’intera storia di Levinio, narrata al piccolo Emiliano, nipote niente meno che di Publio Cornelio Scipione (Scipione l’Africano). Le spade sono infatti il perno della fanteria nell’esercito di Roma, assieme ai grandi e pesanti scudi usati nelle formazioni strettamente irreggimentate, che l’hanno tanto spesso portato alla vittoria contro armate contraddistinte da un’organizzazione molto meno disciplinata. I Galli Insubri sono forse una di queste, con la loro suddivisione in clan famigliari tanto diversa dal ferreo sistema della repubblica romana; certo è che i continui assalti furiosi dei guerrieri e le molte unità di cavalleria, metteranno a dura prova la fazione del protagonista.
Ma quali spade erano realmente usate nella penisola italica del mondo antico, all’epoca della narrazione? Anche in questo caso, Melappioni è accurato e preciso nella sua ricostruzione, che non si ferma ai semplici cliché del Gladio universalmente diffuso, da contrapporre a “barbare” spade celtiche. Siamo a cavallo del III secolo a.C., un periodo di continua trasformazione sia politica che tecnologica, grazie ai contatti sempre più frequenti degli eserciti e delle popolazioni. Se è pur vero che il “gladio ispanico” – una spada dalle probabili origini celtibere – si sta ormai diffondendo ad ampio raggio tra i milites romani, restano però in adozione anche altri tipi di armi, usate da lunga data: è certo il caso dello Xiphos di origine ellenica, con la sua caratteristica lama a foglia di salice. Si tratta di una spada diffusa in antichità a partire dall’area micenea, ma ben presto adottata anche dai romani, che non si facevano mai sfuggire un’innovazione bellica. E infatti lo Xiphos compare nelle mani di un personaggio piuttosto importante e carismatico all’interno del romanzo.

Una menzione va certo fatta anche per le armi dei Piceni, che Melappioni ci descrive come spade corte a filo singolo: nulla è lasciato al caso, dal momento che proprio per le popolazioni picene è attestato in questo periodo un uso particolare del Kopis, un’altra arma di origine ellenica con lama ampia e monofilare. A differenza di quello diffuso in precedenza, il Kopis dei Piceni avrebbe potuto presentare una lama dalla curva più accentuata, affilata però sul lato concavo, così da massimizzare i colpi al momento dell’impatto.

Veniamo però a una delle spade più importanti nel racconto, ovvero quella “gallica”, dal momento che gli Insubri sono presentati come guerrieri feroci e anche in questo caso le spade non mancano, a partire da quella del loro generale, Viridomaro. Molte e discordi sono le opinioni degli storici (sia antichi che moderni) riguardo alla spada usata dai celti; nel periodo del racconto, la Gallia cisalpina vedeva il coesistere di varie popolazioni divise a loro volta in clan famigliari, con diverse disponibilità economiche e, soprattutto, con una tecnica metallurgica sviluppata in maniera tutt’altro che uniforme. Ecco perché, probabilmente, troviamo racconti di spade celtiche che si piegano letteralmente dopo aver menato pochi fendenti, costringendo il proprietario a fermarsi per sistemare la lama; nel romanzo compaiono anche Galli con spade dalla punta ampia e squadrata, a testimoniare la grande varietà di foggia e fattura disponibile nell’area. Per la Gallia cisalpina in particolare, esistono attestazioni di spade di qualità piuttosto mediocre, forse lame economiche, forgiate da fabbri inesperti o frettolosi, per committenti dalle scarse possibilità.
Se pensiamo però alla spada di un grande e ricco personaggio quale il potente Viridomaro, dobbiamo certamente immaginarci un’arma dalla fattura eccellente, con ogni probabilità tra le migliori che uno spadaio gallico avrebbe saputo produrre, il che significa, di qualità pari o anche superiore a quelle romane. Il modello più diffuso doveva essere quello detto “La Téne B”, dal secondo periodo dell’omonima cultura celtica, simile alla famosa “spada di Kirkburn”, che viene collocata proprio nel III secolo a.C.
La spada lateniana di questo tipo aveva una lama piuttosto lunga e pesante, come infatti ci ricorda Melappioni nelle primissime pagine del suo Milites: dobbiamo immaginarci una lama diritta a doppio filo, probabilmente con una sezione spessa e una “spina” centrale, che l’avrebbe resa più rigida, adatta ad affondi potenti così come a colpi di taglio dal grande impatto, grazie alla larghezza della lama. Per quanto riguarda l’elsa, possiamo spaziare molto con la fantasia, dal momento che i ritrovamenti suggeriscono una grande varietà nelle fogge; certamente non pensiamo a guardie troppo elaborate, né a qualche tipo di protezione, per spade che in ogni caso erano destinate a essere usate in battaglia assieme ad uno scudo.

Come abbiamo visto, Milites – Cammino di gloria non è soltanto una storia avvincente, con personaggi approfonditi e dal grande pathos, che trasporta il lettore direttamente nel cuore della battaglia, ma anche un’esperienza assolutamente educativa dal punto di vista storico, che di certo non lascerà delusi i cultori del genere!